Convegno “Cioran in Italia” tenutosi il 10 novembre 2011 presso l’Accademia di Romania in Roma.
- Maledizione del lavoro
In principio era… l’ozio. La mitologia su questo punto concorda con la grammatica. L’otium precede il negotium, sia dal punto di vista temporale che etimologico, essendo il secondo una negazione o derivazione del primo, così come in greco la scholé è antecedente all’ascholía. Che il lavoro sia una sorta di catastrofe più o meno necessaria, posteriore alla vita beata degli dei, è una verità su cui le civiltà antiche si trovavano d’accordo. Dalla Grande Muraglia alle Ande, l’esecrazione del lavoro era pressoché unanime, tanto da essere considerato incompatibile con l’idea stessa di libertà. Percepire un salario in Grecia era addirittura disonorevole per la condizione stessa di cittadino. Platone negava i diritti politici a chi esercitava mestieri degradanti, o attività per natura ingannevoli e menzognere, come il commercio. “La città perfetta” – sentenzia dal canto suo Aristotele – “non farà dell’operaio un cittadino”.[1]Nella Sparta di Licurgo il lavoro manuale era a tal punto disprezzato che si ricopriva d’infamia chi, come Esiodo, osava tesserne l’elogio, non per niente fu soprannominato dai Lacedemoni “il poeta degli Iloti”. Al di là dei mestieri nobili, quali l’agricoltura e le armi, la cultura latina aborriva le sordidae artes, debitamente riservate agli schiavi.
Per gli autori della Genesi, giova ricordarlo, in seguito alla cacciata dal Paradiso il lavoro è diventato addirittura una dannazione divina. Cioran non esita a riconoscere che, perlomeno su questo punto, occorre credere alla Bibbia sulla parola: “La passione insensata per lo sforzo rimane incomprensibile al di fuori del Peccato originale”.[2] Ciò nonostante le caste sacerdotali, vedi il libro dei Proverbi, smentiranno il loro Dio, trasformando l’anatema in una benedizione, in un segno di divina elezione. Condannando senza rimedio la pigrizia altrui, garantiranno la loro. Il gregge sgobbone dei fedeli, pur di guadagnarsi un salvacondotto per l’eternità, fornirà loro lana e latticini in abbondanza. E ciò, sia detto per inciso, sino ai nostri giorni. Come dire, valgono sempre le parole di Giovenale: Curios simulant sed Bacchanalia vivant…
Occorreva tuttavia la perversione moderna per elevare l’abominio del lavoro al rango d’un diritto, d’un dovere etico, se non, addirittura, d’un piacere… Tradendo la vocazione universale dello spirito, l’uomo ha preferito tumularsi nei limiti angusti e avvilenti d’una professione. Considerandosi niente di più di ciò che fa, diventando cioè una risorsa tra le tante, si è consegnato anima e corpo a processi produttivi impersonali che finiscono per abbruttirlo irrimediabilmente, tanto da renderlo irriconoscibile perfino a se stesso. In una parola è diventato funzionario. Iniziò la sua carriera come imago Dei, si avvia a terminarla come fattore produttivo, sottospecie traviata dell’homo œconomicus.
Sostituendosi al vecchio Dio, la religione del Capitale, sia nella forma privata che collettiva, ha trasformato il mondo in una grande officina, nutrita dalla carne frustrata di miliardi di individui, le cui vite sono scandite e stritolate da quel Giano bifronte che è il ciclo produzione-consumo, in grado di divorare sia il tempo lavorativo che i cosiddetti loisirs. Per guarire dalla “piaga d’esser nati”, – scrive Cioran nella prima versione del Précis – “la terra avrebbe dovuto essere un sanatorium: non è che una fabbrica, dove si alimenta la nevrosi della produzione”.[3]
I nuovi sacerdoti dello sviluppo incondizionato, hanno risolto il problema della schiavitù rendendola praticamente universale, mascherandola, ex lege, sotto il principio satanico della dignità del lavoro. Per Cioran si tratta di chiamare le cose con il loro nome: “Fintanto che l’operaio lavora più di tre ore al giorno sarà uno schiavo, quale che sia il regime in cui vive, foss’anche quello dei suoi sogni…”.[4] In altre parole, quando a vari livelli tutti sono asserviti, nessuno più si rende conto di esserlo, ognuno percepisce solo le differenze di grado, rimanendo cieco rispetto a quelle essenziali, come quella tra libertà e servitù.
Con precoce lucidità e straordinaria concisione, nel suo primo libro rumeno Cioran condensa tutta la parabola dell’umana miseria in poche parole: “Il lavoro: una maledizione che l’uomo ha trasformato in voluttà“.[5]
- L’uomo più sfaccendato di Parigi
Al di là di tutto, il vero capolavoro di Cioran è stata la sua vita. Sopravvivere senza rendita e senza lavoro a Parigi, nel secolo dell’occupazione obbligatoria, è già di per sé un mezzo miracolo, un’impresa eroica che meriterebbe da sola una gloria imperitura. Ultimo esemplare di quel “sole al tramonto”che è stato il dandy ottocentesco, Cioran fu uno dei pochi ad aver praticato sul campo la libertà come affrancamento dal lavoro, inteso questo – sono parole sue – come “ogni sforzo esente da piacere, o piuttosto: uno sforzo che vi sminuisce ai vostri occhi“.[6]
Approdato a Parigi nel 1937, grazie ad una borsa di studio dell’Istituto francese di Bucarest, per preparare una tesi su Bergson, Cioran fece voto d’inefficacia, dandosi un unico imperativo: “Occorre fare di tutto, tranne lavorare“.[7] Disertò le lezioni alla Sorbona, preferendo al clima claustrale dell’ambiente universitario, la vita all’aria aperta, disimpegnata, insomma una vita da bohème. Risalgono a quel periodo i suoi leggendari viaggi en vélo alla scoperta della provincia francese. Tra ostelli della gioventù e conversazioni estemporanee con contadini ed operai, Cioran conobbe l’altra faccia della Francia, quella popolare, non-parigina.
Nel periodo in cui partivo in bicicletta per dei mesi attraverso la Francia, il mio più grande piacere era di fermarmi nei cimiteri di campagna, distendermi tra le tombe, e fumare così per delle ore. Vi ripenso come all’epoca più attiva della mia vita.[8]
Il risultato dell’insolito tour de France, fu che non scrisse una sola una riga della sua tesi. In compenso, aveva acquisito come pochi altri una comprensione autentica, non libresca, della cultura francese. “Il fatto di essersi messo la Francia nelle gambe” più che nella testa, gli valse tuttavia l’attestazione di stima del direttore dell’Istituto francese di Bucarest, lo storico Alphonse Dupront, che decise di prolungargli il vitalizio di studio sino al 1944.
Cioran era disposto ad accettare qualsiasi privazione, persino la povertà se necessario, pur di non essere costretto a vivere – e soprattutto a scrivere – come non avrebbe mai voluto. È detto nello Zhuang-zi:
Povertà non è miseria. Quando un letterato non può mettere in pratica la sua dottrina, questa è miseria. Con il vestito rappezzato e le scarpe bucate egli è povero, ma non è miserabile. Ciò significa soltanto che i tempi non gli sono stati propizi.[9]
I “tempi non propizi”, significarono per Cioran usufruire fino a quaranta anni delle mense universitarie, barattare la sua capacità d’intrattenimento con la generosa ospitalità degli amici – “se fossi di indole taciturna, sarei morto di fame da parecchio tempo”, scrive ai genitori nel 1946.[10] Insomma, vivere d’espedienti, col rischio di sprofondare da un momento all’altro nell’indigenza, era il prezzo che era disposto a pagare, pur di garantirsi un’esistenza libera. Eppure quanta più dignità c’è in una simile vita se paragonata, ad esempio, a quella degli impiegati parigini – scimmie indaffarate, indegna progenie dei loro indolenti antenati, consunti dalla vanità e dall’insulsaggine delle loro occupazioni?
Tutto ciò che l’uomo fa mi appare artificiale ed inutile. Solo l’animale trova grazia ai miei occhi. Che assurdità quella d’una scimmia che va in ufficio ! Confinarsi in una stanza, mettersi al proprio tavolo di lavoro, restarvi per delle ore, – no, l’ultima delle bestie è più vicina alla verità dell’uomo. E quando penso a questa maledetta razza di funzionari, che impiegano le loro giornate ad occuparsi di cose che non li riguardano, che non hanno niente in comune con i loro pensieri o il loro stesso essere! Nella vita moderna nessuno fa ciò che dovrebbe fare, soprattutto ciò che desidererebbe fare.[11]
Il carattere distintivo del dandy, secondo Baudelaire, è quello di non fare nulla, di essere assolutamente inutile, solo così infatti può preservarsi dalla volgarità insita in una funzione in quanto tale, in ogni mestiere che, fatalmente, obbliga a perseguire uno scopo altro da ciò che si è, mentre il vero artista non esce mai da se stesso.
La prostituzione, lungi dall’essere un mestiere tra i tanti, si rivela quindi come l’essenza stessa del lavoro. Il termine pornè, con cui i greci appellavano la prostituta di basso rango, etimologicamente deriva da pernemi, (io vendo), appunto, le prestazioni del corpo in cambio di denaro. Ora, questa definizione, sembra coincidere con quella di salariato che da Aristotele arriva fino al proletario di Marx: colui che, privato di tutto fuorché delle proprie braccia, vende sul mercato la forza lavoro di cui dispone, in cambio del diritto a sopravvivere.
Tanto calzante è l’accostamento, che Cioran stesso, in un’intervista a François Bondy, dopo essersi definito “l’homme le plus désœuvré de Paris”, aggiunge: “Solo una prostituta senza clienti è più pigra di me”.[12]In proposito nei Cahiers racconta le avvilenti visite all’editore Gallimard, quando era ancora uno scrittore senza lettori, i cui libri, invenduti, erano destinati al macero. Agli impiegati doveva ripetere il proprio nome, perché nessuno lo conosceva. Quando infine si presentava agli uffici direzionali, si sentiva come una puttana che nessuno montava più, tanto da evitare lo sguardo del tenutario del bordello, nella fattispecie Claude Gallimard.[13]
Alla moglie dello scrittore tedesco Ernst Jünger, che candidamente gli chiese da quale fonte traesse il proprio sostentamento, Cioran rispose in modo provocatorio, che oramai si era adattato a vivere come un maquereau (ovvero un magnaccia, pappone), intendendo con ciò che l’unica a portare a casa uno stipendio sicuro era la compagna Simone Boué, insegnante d’inglese al liceo e provvidenziale finanziatrice della sua scioperataggine.[14] Tuttavia Simone, modestamente, ha sempre sminuito il suo ruolo, rimarcando che senza di lei Cioran se la sarebbe comunque cavata.
Se la vita, questo compromettersi con le vicissitudini d’un corpo, richiede già di per se una predisposizione innata al marciapiede, il lavoro non fa che aggiungervi una degradazione ulteriore: la caduta in un circolo vizioso dove la fatica, necessaria a garantire le condizioni minime d’esistenza, finisce per confondersi con la vita stessa; il fare, esente da piacere, diventa godimento. Un desiderio malsano, perverso si aggira per il mondo: è il desiderio di lavorare…
Se la vita, questo compromettersi con le vicissitudini d’un corpo, richiede già di per se una predisposizione innata al marciapiede, il lavoro non fa che aggiungervi una degradazione ulteriore: la caduta in un circolo vizioso dove la fatica, necessaria a garantire le condizioni minime d’esistenza, finisce per confondersi con la vita stessa; il fare, esente da piacere, diventa godimento. Un desiderio malsano, perverso si aggira per il mondo: è il desiderio di lavorare…
Il demone del rendimento ha preso possesso del globo: è il regno dell’isteria dei muscoli, supremo compimento della Caduta. Tutti corrono, si precipitano, ansimano: nessuno ha più tempo per vivere né per morire. Produrre, verbo della mitologia quotidiana, che deve far morir di gioia il Diavolo, patrono dell’Azione.[15]
- Il paradiso degli abulici
Vituperando la pigrizia, le religioni hanno precluso all’uomo il ritorno alla sua condizione di beatitudine originaria. Se il Paradiso, più che un luogo, è innanzitutto una condizione dell’anima, esso andrebbe identificato, secondo Cioran, con “quell’istante senza fine e senza desiderio, quella vacanza primordiale, insensibile ai presentimenti della caduta e della vita“.[16] Ecco allora cadere sull’indolenza una luce stupefacente: liberata da secoli di mistificazione, finalmente ritorna ad essere quella che era sempre stata: una nostalgia fisiologica del Paradiso, una sua “miracolosa sopravvivenza“.[17] Stando così le cose, occorre al più presto invertire la rotta, sbarazzarsi di tutte le calunnie tramandate, abiurare le Summe Teologiche ed i codici moderni. Insomma, ripartire da zero, o meglio, non ripartire affatto… Occorre fermarsi, incrociare le braccia e proclamare a gran voce con Cioran, che la pigrizia è la virtù salvifica per eccellenza.
Tutto ciò che di buono possediamo viene dall’indolenza, dalla nostra incapacità di passare all’atto, di eseguire i nostri progetti e nostri disegni. È l’impossibilità o il rifiuto di realizzarci che conserva le nostre “virtù”, ed è la volontà di dare il massimo che ci conduce agli eccessi e alle sregolatezze.[18]
L’istigazione all’operosità, lo si sappia una volta per tutte, viene dal maligno. Ribellarvisi è già un primo passo verso la salvezza. Da questo punto di vista l’indolenza diventa un atto d’indisciplina, uno scetticismo a livello degli organi – “il dubbio della carne”,[19] come la chiama Cioran – che mette in discussione il dogma dell’azione e ne sospende il corso. Fiaccando il volere, toglie linfa all’agire inchiodandoci all’istante, al qui, all’ora. Il corpo, invaso dal torpore, si dimette, rifiutandosi d’essere complice delle nostre paranoie diurne. Rivendica, in altre parole, il diritto animale alla letargia, a cui l’homo erectus, lanciato verso l’utopia d’una civiltà cinetica, ha ormai rinunciato da tempo.
Sottraendoci al flusso degli atti, la pigrizia opera in noi un cambiamento fondamentale: da attori che eravamo ci trasforma in “spettatori dell’epilessia umana”.[20] Questo capovolgimento ha tutto il sapore d’una rottura epistemologica. Da una conoscenza pratica, manipolativa, che vede le cose unicamente in base alla loro utilità rispetto allo scopo perseguito, si passa alla contemplazione, alla pura visione, che coglie i fenomeni nei limiti del loro manifestarsi, indipendentemente da ogni progetto umano. Per l’homo œconomicus le cose non sono, valgono; e se ne brama il possesso, è sempre in ragione del guadagno che ne può trarre, consumandole o scambiandole. Da questo punto di vista, l’indolente gode d’una prospettiva privilegiata: disoccupandosi di se stesso esce dal circuito degli atti, dalla polarità soggetto-oggetto, per diventare tutt’uno con la realtà che lo circonda.
Gli sfaticati colgono più cose e sono più profondi degli affaccendati; nessun bisogno limita il loro orizzonte; nati in un’eterna domenica, essi osservano – e si guardano guardare.[21]
La felicità viene a coincidere per Cioran con una passività contemplativa, con l’estasi dello sguardo: “camminare in campagna, guardare e niente più, dissolvermi nella pura percezione”, scriverà nei Cahiers.[22] Pedone inguaribile, Cioran è stato uno dei più formidabili flâneur del secolo scorso. Le sue quotidiane passeggiate ai Jardins de Luxembourg o le deambulazioni notturne per le vie parigine, rimangono proverbiali. Nelle lettere al fratello, lamenta tuttavia la devastazione dovuta al traffico e al rumore assordante. In una Parigi ridotta ormai, secondo una sua celebre definizione, ad un “garage apocalittico”, il flâneur, a rischio d’estinzione, è costretto alla fuga, come del resto fece lo stesso Cioran, isolandosi di tanto in tanto a Dieppe.
Più che un’abitudine urbana, la flânerie assurge in Cioran a vero e proprio modus vivendi, una sorta d’arte di vivere che corrisponde perfettamente, da un lato, al sentimento morboso della caducità universale e, dall’altro, ad una condizione d’inappartenenza al mondo. Di qui la ripugnanza verso un qualsivoglia mestiere, il rifiuto di assumere un ruolo sociale, di costruire una vita… Istallarsi nel provvisorio e vivere assolutamente senza scopo, è l’etica scettica del viandante, del passeggiatore ozioso, senza meta né radici, che non ha trovato sulla terra un luogo dove esercitare professionalmente la prostituzione del vivere:
Vado a zonzo attraverso i giorni come una puttana in un mondo senza marciapiedi.[23]
Dopo la promenade giornaliera, l’indolente abitualmente si distende. Posizione ideale per riportare l’umano alla sua giusta dimensione. In piedi, con lo sguardo rivolto in avanti, al futuro, si acquisisce una visione temporale dell’essere, inevitabilmente falsa, che illude sulla possibilità di governarne il corso. Supini, al contrario, con lo sguardo al cielo, si è al cospetto della nostra insignificanza cosmica, costretti per una volta a considerare la vanità d’ogni umano progetto. Ce n’è abbastanza per non rialzarsi più…
Questa mattina, dopo aver ascoltato alla radio un astronomo parlare di miliardi di soli, ho rinunciato alla mia toilette: perché lavarsi ancora?[24]
La posizione orizzontale ci pone in una prospettiva infallibile per osservare le cose, per così dire, “sub specie aeterni”. Il succedersi degli istanti, frutto delle nostre allucinazioni verticali, si arresta come per incanto. La dimensione spazio-temporale, sottoposta ad una curvatura infinita, finisce per collassare in un presente statico, che si confonde con l’immensità del Tutto. “Per intravedere l’essenziale,” – assicura Cioran – “non occorre esercitare alcun mestiere. Restare tutto il giorno distesi, e gemere …”.[25]
Non rimane allora che abbandonarsi all’abbraccio uterino delle coperte, deponendo una volta per tutte la volontà, affinché la coscienza si diluisca nel mare d’un sonno senza sogni, fino a perdersi nell’indistinzione originaria.
Amo sprofondare nel sonno, la sensazione d’esservi inghiottito, quasi si trattasse d’un abisso eterno, dell’avviluppante universo prima della nascita.[26]
- Un eroe in pantofole
Il letto dovrebbe essere il termine naturale di tutti i nostri propositi, l’isola su cui naufragano tutti i nostri progetti. Ma, ahimé, il sonno dura troppo poco e per quanto si faccia ricorso alla siesta – altro retaggio animale e divino caduto in disuso – il nostro orologio biologico ci costringe alla veglia per una parte considerevole della giornata. Che fare dunque? Dove andare? “Molto semplicemente, non facciamo niente e non andiamo da nessuna parte”,[27] è la provocazione lanciata da Cioran.
Proprio per aver risposto diversamente a questo interrogativo capitale, Lenin costrinse un intero popolo a sposare i suoi deliri politici, con lo strascico di terrore e morte che ne seguì. Che ingenuo! Nessuna beatitudine terrena o celeste sarà mai il frutto del lavoro febbrile e dell’“elettricità”, come pretendeva Vladimir Ilič ! “Volete costruire una società in cui gli uomini non si nuocciano più gli uni con gli altri? Fateci entrare soltanto gli abulici.”, suggerisce per converso Cioran,[28]invocando al contempo la costituzione d’una “fratellanza dei fannulloni” per “stigmatizzare il sudore”.[29] Essi soli infatti lasciano il mondo così com’è; gli altri, gli invasati, non appena scorgono una nuova idea di società, la fanno propria, con la folle pretesa di farla diventare realtà. Animati da un fervore inesauribile, si mettono subito in marcia per diffondere il nuovo verbo, e non si placano fino a che il mondo intero non si è messo al loro passo. È proprio allora – commenta amaramente Cioran – che “la dolce bagarre quotidiana s’organizza in tragedia”.[30]
Tornando alla Russia, possiamo affermare, senza tema di smentita, che Oblomov e non Stakhanov doveva essere il cittadino modello della società ideale; Gončarov, e non Lenin, il suo profeta. Non a caso, in preda al frenesia produttiva dei piani economici quinquennali, Lenin sentenziò che “bisognava uccidere l’Oblomov che è in ognuno di noi”. In altre parole voleva estirpare dal cuore russo l’utopia bucolica e autarchica di Oblòmovka, tratteggiata nel capolavoro di Gončarov. Lo stesso Cioran faceva dipendere l’avvenire dell’Europa dalla possibilità di “meridionalizzare” i popoli cosiddetti “austeri”, Russi e Tedeschi in testa, inoculando loro il “gusto del farniente, dell’apatia e della siesta…”.[31]
Ad ogni modo, solo dal genio letterario russo poteva nascere quell’anti-eroe della passività assoluta invocato da Cioran nelle pagine del Précis:
Dov’è colui che avrebbe tratto – nella propria condotta – una sola conclusione dall’insegnamento dell’astronomia, della biologia, e che avrebbe deciso di non lasciare più il suo letto per rivolta o per umiltà di fronte alle distanze siderali o ai fenomeni naturali ? Vi fu mai un orgoglio vinto dall’evidenza della nostra irrealtà ? E chi fu abbastanza audace da non far più niente perché ogni atto è ridicolo nell’infinito ? Le scienze provano il nostro nulla. Ma chi ne ha afferrato l’ultima lezione ? Chi è diventato un eroe della pigrizia totale ? Nessuno incrocia le braccia: siamo più solleciti delle formiche e delle api. Tuttavia se una formica, se un’ape, – per il miracolo d’un’idea o per una tentazione di singolarità – s’isolasse dal formicaio o dallo sciame, se contemplasse dal di fuori lo spettacolo delle sue pene, s’ostinerebbe ancora nel suo lavoro ?[32]
Oblomov, il protagonista dell’omonimo romanzo, è un allettato sui generis. Nessuna infermità o stanchezza ve lo costringe, non ha bisogno di riposo né gode particolarmente a crogiolarsi tra le coperte. Narra Gončarov che “lo stare coricato … era semplicemente il suo stato normale”. Pervaso da un’inerzia invincibile, da un’apatia atavica – la celebre aciaïnia russa – Oblomov considerava il letto una sorta di centro di gravitazione universale da cui contemplare il mondo e le vane agitazioni dei suoi contemporanei “quei disgraziati che devono andare in dieci posti in un sol giorno”.
Non meno di Oblomov, Cioran si è sempre trovato in imbarazzo, per non dire a disagio, di fronte ad interlocutori che lo tempestavano con domande del tipo: “Cosa fate?“, “A cosa state lavorando?“. Vedendosi costretto a rispondere: “Ho la faccia di qualcuno che prepara qualcosa, che fabbrica un libro?”.[33] E così, invocava l’aiuto dei “patroni” Pirrone e Lao-tzu, maestri nell’arte dell’astensione, poiché, in definitiva
le domande che non avremmo potuto rivolgere ai nostri idoli, non concepiamo che vengano poste a noi.[34]
- Santità dell’inazione
I maestri taoisti, in proposito, avevano messo a punto un’etica raffinata, che consentiva loro di vivere conformemente alla Via del Cielo, il Tao, che governa il corso della Natura. Questa pratica di vita era denominata Wu-Wei, Non-Agire. Per comprenderla pienamente – come per tutti i concetti negativi – bisogna intendersi sul significato del termine a cui s’oppone. Per i taoisti l’azione è, essenzialmente, ciò che viene fatto in vista di uno scopo mentalmente prefigurato. Essa è propria del profano, di colui cioè che progetta la propria vita in base ad un’idea artificiosa dell’essere, irrigidita sull’affermazione dell’Io individuale. Così facendo entra fatalmente in contraddizione con l’ordine della natura che regola il flusso cosmico, creando le condizioni per il manifestarsi della sofferenza.
Tutto ciò che l’uomo intraprende si ritorce contro di lui. Ogni azione è fonte di dolore perché agire è contrario all’equilibrio del mondo, è darsi uno scopo e proiettarsi nell’avvenire. Il minimo movimento è nefasto. Si provocano delle forze che finiscono per schiacciarvi. Vivere veramente, è vivere senza scopo. È ciò che preconizza la saggezza orientale, che a ben compreso gli effetti negativi dell’agire.[35]
L’agire profano risulterà pertanto dispendioso, disarmonico, quasi sempre drammatico e, per giunta, inefficace. Il saggio, al contrario, si lascia agire dalle forze supreme del Tao, accettando le trasformazioni che la Natura opera, perché sa di essere scaturito dal suo grembo, essendo nient’altro che una delle sue infinite manifestazioni. In ogni situazione non si muove in base a principi astratti, ma si adatta alle circostanze, seguendo la direzione della corrente – non a caso l’acqua è la metafora preferita da Lao-tzu, per descrivere la fluidità e la semplicità del saggio, la sua natura duttile ed umile. Dal canto suo Cioran conviene che “c’è più saggezza nel lasciarsi trasportare dai flutti che nel dibattersi contro di essi“.[36]
Il saggio non fa progetti, non mira intenzionalmente al raggiungimento d’uno scopo, non forza le cose. Il suo agire è spontaneo, inevitabile, come un riflesso inconscio. Per lui non si danno alternative: agisce unicamente il Tao, alla cui voce il corpo risuona con l’immediatezza dell’eco. Preferibilmente si appoggia sul vuoto, muovendosi negli interstizi, come la lama del cuoco Ting che, nel tagliare la carne del bue, procede lungo le cavità, non logorandosi con l’uso, rimanendo a distanza d’anni ancora affilatissima, quasi non agisse affatto. Il wu-wei, proprio perché non ha di mira nessun obiettivo, ottiene il massimo risultato con il minimo sforzo. A nostro avviso anche Cioran, a modo suo, come il cuoco taoista, ha dato prova di muoversi elegantemente negli interstizi, ovvero ai margini della società del suo tempo, sottraendosi mirabilmente alla “duplice corvée” di produrre e consumare, che la religione del capitale ha imposto a tutti i suoi adepti.
Pur considerando Lao-tzu l’uomo più saggio – quindi “normale” – che sia mai esistito, sul piano spirituale Cioran non si riteneva all’altezza d’una simile vetta filosofica. La raffinatezza impalpabile del taoismo mal si adatta ai grossolani palati occidentali, abituati ad armeggiare col pieno piuttosto che col vuoto. Il massimo a cui potremo ambire noi, figliastri degeneri di Prometeo, è commettere un parricidio, ovvero ripudiare ogni forma d’agire, abbandonarci al dolce farniente, che ovviamente non è il Wu-wei, sebbene sia già un primo passo considerevole verso di esso, una sorta di volgarizzazione se vogliamo. Gli indolenti attingono la vanitas del tutto – versione impura, degradata, della Vacuità orientale – attraverso la via brevis della fisiologia.
Ciò che in me chiamo saggezza, in realtà non è che letargia. Una letargia rivestita, mascherata, camuffata con delle teorie.[37]
Al pari di Beckett, Cioran nutriva una segreta ammirazione per quelle figure marginali che hanno “girato le spalle al tempo”, i reietti della società: clochard, musicisti ambulanti, filosofi di strada, prostitute che avevano segnato la sua giovinezza in Romania. Quei perdigiorno per vocazione, la cui pigrizia sfiorava la liberazione, “non amavano il lavoro e lo dimostravano”,[38] poiché, in una maniera viscerale, avevano sempre saputo che “non c’è niente da fare” quaggiù. Tutti gli altri, l’orda dell’umanità laboriosa, arrivano a questa conclusione, quando va bene, “alla fine della loro carriera, e come ricompensa delle loro delusioni…”.[39]
Infine, per ricordare degnamente Cioran, concludiamo con un brano che mostra la sua verve autoironica, umoristica, a tratti dissolvente che lo portava a non prendersi mai troppo sul serio; forse, è stata la sua salvezza…
In preda a preoccupazioni capitali, dopo pranzo mi misi a letto, posizione ideale per riflettere sul nirvâna senza residui, senza la minima traccia d’un io, ostacolo alla liberazione, allo stato di non-pensiero. Dapprima, sentimento d’estinzione felice, poi estinzione beata senza sentimento. Mi credevo sulla soglia dello stadio ultimo; non ne era che la parodia, lo scivolamento nel torpore, nel baratro della… siesta.[40]
Articolo pubblicato nel libro Cioran in Italia. Atti del Convegno (Roma, 10 novembre 2011). Aracne Editrice, 2012. Repubblicato con il permesso dell’autore. Tutti i diritti riservati MASSIMO CARLONI
Note:
[1] Aristotele, Politica, III, 3, 2-4 e V, 2, 1-2.
[2] E. M. Cioran, Exercices négatifs. En marge du Précis de décomposition, Gallimard 2005, p. 156 (T.d.A.).
[3] Ibidem, p. 157 (T.d.A.).
[4] Ibidem (T.d.A.).
[5] E.M. Cioran, Sur les cimes du désespoir, in Œuvres, Paris, Gallimard, coll. « Quarto », 1995, p. 88 (T.d.A.). Tutti i riferimenti alle opere di Cioran sono tratti dall’edizione Œuvres, salvo dove diversamente riportato.
[6] E.M. Cioran, Cahiers 1957-1972, Éditions Gallimard, 1997, p. 815 (T.d.A.).
[7] Entretien avec Anca Visdei, Les Nouvelles Littéraires, 02/1986.
[8] De l’inconvénient d’être né, p. 1306 (T.d.A.).
[9] Zhuang-zi, Adelphi, Milano,1993.
[10] Gabriel Liiceanu, Itineraires d’une vie: E.M. Cioran suivi de Les Continents de l’insomnie, Ed. Michalon, Paris, 1995, p. 66 (T.d.A.).
[11] Cahiers, p. 91 (T.d.A.)
[12] Cioran, Entretiens avec François Bondy, in Entretiens, Paris, Gallimard coll. Arcades, 1995, pp. 10-11 (T.d.A.).
[13] Cahiers, p. 672 (T.d.A.).
[14] Testimonianza riportata in Mario Andrea Rigoni, In compagnia di Cioran, il notes magico, Padova, 2004, p. 16.
[15] Exercices négatifs, p. 157, (T.d.A.)
[16] Précis de décomposition, p. 632 (T.d.A.).
[17] Ivi, p. 600 (T.d.A.).
[18] De l’inconvénient d’être né, p. 1288 (T.d.A.).
[19] Précis de décomposition, p. 600 (T.d.A.).
[20] « Dimanches de la vie » in Précis de décomposition, p. 599 (T.d.A.).
[21] Précis de décomposition, p. 600 (T.d.A.).
[22] Cahiers, p. 323 (T.d.A.).
[23] Syllogismes de l’amertume, p. 767 (T.d.A.).
[24] Aveux et anathèmes, p. 1647 (T.d.A.).
[25] Ivi, p. 1659 (T.d.A.).
[26] Cahiers, p. 468 (T.d.A.).
[27] De l’inconvénient d’être né, p. 1278 (T.d.A.).
[28] Histoire et utopie, pp. 1054-1055 (T.d.A.).
[29] Exercices négatifs, p. 166 (T.d.A.).
[30] Syllogismes de l’amertume, p. 757 (T.d.A.).
[31] Ibidem, p. 771 (T.d.A.).
[32] Précis de décomposition, p. 619 (T.d.A.).
[33] Cahiers, p. 593 (T.d.A.).
[34] Le mauvais démiurge, p. 1256 (T.d.A.).
[35] Entretien avec Sylvie Jaudeau, in Entretiens, p. 223 (T.d.A.).
[36] Précis de décomposition, p. 718 (T.d.A.).
[37] Cahiers, p. 930 (T.d.A.).
[38] Vedasi in proposito l’elogio del mendicante in La tentation d’exister, p. 824.
[39] Syllogismes de l’amertume, p. 766 (T.d.A.).
[40] Aveux et anathèmes, p. 1678 (T.d.A.).